Quinto s'era distratto: tendeva l'orecchio a quel che dicevano nei tavolini vicini. A destra sedeva una famiglia, o persone di due famiglie diverse, di campagna, che s'incontravano in città. Era una donna che parlava: sul danno delle piogge alle semine dei prati da foraggio. Doveva essere una proprietaria, donna non più giovane ma nubile; gli uomini annuivano alle sue parole, con le facce vinose già sonnolente dopo il pasto. Forse era un incontro tra agricoltori di paesi diversi per pattuire un matrimonio; la fidanzata, davanti alla famiglia di lui, ci teneva a farsi vedere competente, e quasi a soverchiare le altre donne dimostrandosi ben più d'una semplice massaia. Quinto fu preso da un'acuta invidia per tutto ciò che sentiva muovere tra le persone di quel tavolo: senso degli interessi, attaccamento alle cose, passioni concrete e non volgari, desiderio d'un meglio non solo materiale, e insieme un peso placido e un po' greve di natura. «Un tempo solo chi godeva d'una rendita agricola poteva fare l'intellettuale, - pensò Quinto. - La cultura paga ben caro l'essersi liberata da una base economica. Prima viveva sul privilegio, però aveva radici solide. Ora gli intellettuali non sono borghesi e non sono proletari. Del resto, anche Masera non è buono a chiedermi che una conferenza.»
A un altro tavolo, una cameriera faceva la civetta con due che scherzavano, due con la cravatta a farfalla, lunghi di mano. In mezzo ai frizzi rivolti a lei si lanciavano battute tra loro, frasi di «punti», di «riporti», «Italgas», «Finelettrica». Dovevano essere operatori di borsa, gente svelta. In un altro momento Quinto li avrebbe trovati distanti e detestabili, ma adesso, nello stato d'animo in cui era, gli pareva che anche quelli incarnassero il suo ideale: praticità, astuzia, veloce funzionalità di pensieri.«Se uno non svolge un'attività economica non è uomo che vale. I proletari hanno pur sempre la lotta sindacale. Noi invece stacchiamo le prospettive storiche dagli interessi, e così perdiamo ogni sapore della vita, ci disfiamo,non significhiamo più nulla.»
Cerveteri aveva ripreso a raccontare quel suo sogno: - Era una farfalla notturna, con grandi ali dai disegni grigi, minuti, marezzati, ondulati, come la riproduzione in nero d'un Kandinsky, no: d'un Klee: e io cercavo di sollevare con la forchetta queste ali ché grondavano una polverina sottile,una specie di cipria grigia, e mi si sbriciolavano tra le dita. Facevo per portare alla bocca i frammenti d'ala, ma tra le labbra diventavano una specie di cenere che invadeva tutto, che copriva i piatti, si depositava nel vino dei bicchieri...
«La mia superiorità su di loro, - pensava Quinto, - è che io ho ancora l'istinto del borghese, che loro hanno perduto nel logorio delle dinastie intellettuali. M'attaccherò a quello e mi salverò, mentre loro andranno in briciole. Devo avere un'attività economica, non basta che io venda il terreno a Caisotti, devo mettermi a costruire anch'io, coi soldi che ci darà Caisotti farò un'altra casa vicino alla sua...» Concentrò il pensiero sulle possibilità edilizie che offriva ancora il terreno, sulle combinazioni possibili...
Le mani di Cerveteri si muovevano sospese sulla tovaglia ingombra di briciole, molliche, cenere di sigaretta e mozziconi schiacciati nei piatti e nel portacenere, bucce di arancio tormentate dalle unghie di Bensi in piccoli tagli a forma di mezzaluna, fiammiferi Minerva tutti smembrati, divisi in sottili filamenti dalle dita di Cerveteri, stecchini tutti contorti a zig-zag o a greca dalle mani e dai denti di Quinto.
«Devo mettermi socio con Caisotti, fare una speculazione con lui».