Una domenica, già frequentavo l’università, per sgranchirmi le gambe ero tornato a visitare i campetti dove con i compagni venivamo a tirare quattro calci e dove portavo l’ingrizzo per respirare un po’ di aria di campagna e avere un angolo discreto per rubare di straforo un bacio. Dovunque sorgevano cantieri edili, non mi raccapezzavo più con i luoghi. La città, dalla sua aristocratica indifferenza in cui ogni basola sembrava raccontasse la sua storia, s’era, improvvisamente, risvegliata col furore del nuovo: i cittadini e i nuovi arrivati andavano ad abitare le case con gli ascensori, l’autoclave e i riscaldamenti. La Vucciria, i vicoli ricchi di bravi artigiani, gli antichi quartieri era come se fossero stati colpiti da una lenta e inguaribile malattia. Chi poteva andava. Anche mamma, vedendo un pezzo di terra, aveva comprata la casa per sé e per ognuno dei figli. Papà non guidava la macchina e non voleva sentire ragioni di muoversi da dove era nato ed aveva lo studio. - È una americanata! - diceva con le mani ai fianchi come un condottiero a cavallo dopo avere salito per le scale cinque piani. La mamma, dopo la morte della nonna, era cambiata molto; non era più come una bambina timida e nervosa. Ma forse era mutata l’aria che si respirava e i tempi. Rispondeva con grinta a papà. E le sue battute: - L’odore di pipì di gatto scaccia gli spiritelli maligni – la innervosivano e cambiava stanza. S’era arredata la casa e vi andava di tanto in tanto, per stare vicina ai figli e ai nipoti che stavano nello stesso palazzo. Aveva cessato di trottare dietro papà e si era dimostrata oculata nella gestione di quello che restava del suo patrimonio. Secondo la tradizione, era l’uomo a tenere il timone della famiglia e papà aveva amministrato le terre di mamma. Invero lui aveva visto l’amministratore, l’avvocato e i notai aprire sulla scrivania i fogli di mappa ed elencare le particelle che andavano a picco nelle vendite come le corazzate e gli incrociatori in una battaglia navale. Era tutt’altro che pigro e si arrampicava per liste e cenge a caccia d’insetti e farfalle meglio di un pastore, ma per impenetrabili motivi non amava la vista delle terre di San Michele. Temeva di scoprire d’essere ingannato. Sapeva che non avrebbe potuto reagire, così si fidava. Forse amava più trastullarsi con la lettura di un buon romanzo e passare qualche ora a “mettere a posto” la sua collezione di farfalle diurne, che annoiarsi a sentire l’amministratore sulle “malannate” del feudo e dei nostri poderi. I fittavoli normalmente non pagavano il fitto: ora perché non pioveva e piangevano miseria, ora perché erano vittime di furti di bestiame, ora perché sotto il cielo le disgrazie capitano sempre. Un tempo, quando la terra era fonte di ricchezza, gli amministratori avevano vita breve. Il penultimo era un corleonese. Aveva qualcosa del falco nel viso magro dal naso affilato. Asciutto, leggero, pareva fosse stato creato per vivere più in aria che in terra. Aveva occhi grigio ardesia. Freddi. I capelli neri, ondulati; avevano un che di femmineo. Abile nel maneggio, pareva avesse la capacità di comunicare il suo pensiero ai cavalli tirando le redini con polso fermo. Portava, in tutte le stagioni, stivali alti e comodi vestiti di velluto. Con un mezzo toscano stretto all’angolo della bocca, aveva l’aria di un seduttore. Una mattina arrivò la notizia che era stato abbattuto a pallettoni, il figlio s’era salvato nascondendosi in una cunetta. A casa ci fu viva emozione perché Lino ci sembrava tanto una brava persona e io piansi perché mi aveva insegnato a montare a cavallo e mi aveva regalato una pecorella col pelo gonfio gonfio che sembrava di marzapane.