La donna con cui sto parlando in un caffè sulla Leuvensesteenweg, è una piccola musa fragile, leggermente truccata, magra. È bionda, un po' al di là dei trenta e si chiama Ylvi. Attacco bottone con lei perché lei guarda me e io guardo lei, e casualmente entrambi ci troviamo a sorridere.
Ylvi viene dall'Estonia, abita nella capitale, Tallin, e ha una figlia di tre anni da una relazione precedente. «Una vita un po' incasinata» dice. La bambina adesso si trova con i genitori del suo ex e lei fa la contabile.
«Perché non porti tua figlia con te?» chiedo io.
«In Belgio? Il paese di Dutruox?»
Nel frattempo sullo schermo della TV scorre un testo. All'improvviso questa notizia: è di nuovo precipitato un aereo. Sulla CNN l'informazione è sommaria: si limitano a ripetere che un aereo in fase di atterraggio o di decollo è precipitato nel Queens, New York.
Mostrano senza interruzione l'immagine grigioazzurra della capitale del mondo con un pennacchio di fumo.
Che ore saranno lì? Ce lo chiediamo insieme.
Ylvi dice che le manca sua figlia.
“Figlia” si dice tütar in estlandese, o estonese, o estone. Simpatico. Mi scrivo tütar sulla mano.
«Ci sono molti crimini nel tuo paese?» mi chiede. «È un posto sicuro? Com'è la situazione al momento con gli assassini di bambine?»
La tranquillizzo. Continuiamo a guardare la TV. Non arrivano più notizie da New York. Laggiù c'è solo quella acqua grigia e il testo che passa in sovraimpressione. Viene definito un disastro normale, non un attacco terroristico. Sì, un disastro normale con una probabilità che rientra nei confini della sicurezza.
«Voi siete così in salute, qui» dice Ylvi. «Qui per lo meno la gente sorride. Da noi tutti hanno il colore della buccia di mela. E ci sono filobus dappertutto. D'estate il cielo, di notte, ha quasi la stessa luce che di giorno.»
«Dici sul serio a proposito di questo sorridere? Davvero qui la gente sorride di più?»
«Sì, da noi sono così cupi perché non succede mai niente». Tesa, guarda ancora la televisione. «Ah, un disastro normale» dice. «Non avrà nessun effetto sulla borsa.»
Mentre lei esce dal locale, entra Theo, il mio capo. Ci siamo dati appuntamento qui, perché ha ricevuto l'esito della valutazione.
«Complimenti, Robin. Ce l'hai fatta. Vero che sei un po' impetuoso, ma a parte questo la stoffa ce l'hai. Sei competente, eccetera eccetera. L'ha confermato l'intera organizzazione del CSP».
Anche lui sembra sollevato, ma indica la mia mano. «Che hai lì?»
«La parola estone per dire “figlia”.»
«Ma scrivere sulla mano no, non farlo. Mica sei un ragazzino. Non voglio che ti presenti così dai clienti.»
Cancello la scritta con un dito bagnato.
Tira fuori dalla giacca un quadernetto per appunti nero, modello Moleskine. «Ti do un taccuino per annotare idee per il tuo rapporto europeo. E in primo luogo per non scriverti più sulla mano.»
Rapporto europeo?
Suona bene. Racconto della mia esperienza europea, del Manneken Pis e delle bandiere, del folklore.
«È questo che chiami Europa?» chiede Theo. «La faccenda romantica delle nazioni? Ma l'Europa non può avere un significato più ampio delle danze popolari?»
Legge a voce alta la cartolina pubblicitaria che è volata fuori dalla Moleskine: “La Moleskine fu utilizzata da artisti come Picasso, Hemingway, Chatwin. Chatwin annotava persino sul taccuino il suo nome e l'indirizzo e prometteva una somma di denaro che avrebbe pagato a chi, trovandolo, si fosse comportato onestamente.”
«Bella storia di marketing, Theo. Tu ci credi?». «Allora almeno smettila di scarabocchiarti la mano.»