«Sì lo so» tagliò corto l'uomo. «È divertente fare scherzi alle bestie quando sono chiuse in gabbia! È buffo, ma sarebbe meno divertente se la gabbia dovesse aprirsi, eh, dica, sarebbe meno buffo. Sarebbe buffo anche se fosse lei ad essere lì dentro, che ne pensa?».
 
Si voltò disgustato, e rivolgendosi a una tipa a caso: «Certa gente proprio non si rende conto. Quella bestia là non mangia da tre giorni, e c'è gente che si diverte un mondo a venire a prendere in giro le bestie in gabbia. Sì, certe volte mi piacerebbe che la gabbia e si aprisse un po' è lasciasse passare una di queste dannate bestiole. Allora sì che correrebbero, ah sì, stavolta lo capirebbero, stavolta lo saprebbero».
 
Adam se ne andò senza ascoltare la fine della frase. Non alzò le spalle, ma camminò lentamente, trascinando i piedi. Passò vicino alle gabbie dei mammiferi: nell'ultima, la più piccola, la più bassa, c’erano tre lupi magri. Al centro della gabbia avevano costruito una specie di cuccia di legno, e i lupi le giravano attorno, instancabilmente, incessantemente, con gli occhi di traverso, puntati ostinatamente sulle sbarre che sfilavano a tutta velocità, all'altezza delle ginocchia.
 
Giravano in senso alterno, due in un senso, uno nell'altro: dopo un certo numero di giri, facciamo dieci o undici, per una ragione improvvisa, imperscrutabile, come se qualcuno avesse schioccato le dita, facevano dietrofront e ricominciamo in direzione opposta. Erano spelacchiati, grigi di polvere, avevano le labbra viola, ma non smettevano di girare e rigirare intorno alla tana, e l’acciaio delle loro pupille si rifletteva su tutto il corpo, sembravano coperti di placche di metallo, violenti, stracolmi di odio e di ferocia. Il movimento circolare che descrivevano all'interno della gabbia diventava, per la sua regolarità, il solo vero punto mobile dello spazio circostante. Tutto il resto del giardino, con gli uomini e le altre gabbie, era immerso in una sorta di immobilità estatica. Lì intorno, fino alla gabbia dei lupi, una campana di sbarre di ferro e legno, si restava di colpo raggelati, fissati in una rigidità insostenibile. Come un cerchio luminoso visto al microscopio, dove erano stati sistemati e colorati a tinte vivaci gli elementi di base della vita: cellule a bastoncino, globuli, tripanosomi, esagoni molecolari, microbi a frammenti di batteri. Una geometria strutturale dell'universo microcosmico, fotografata attraverso dozzine di lenti: quel cerchio bianco, sapete, abbagliante come una luna, colorato con prodotti chimici, che è la vera vita, senza movimento, senza durata, talmente lontane nell'infinito secondo, che non ha più niente di animale, di visibile. Non c’è altro che silenzio, fissità, eternità, perché tutto è lentezza, lentezza, lentezza.