Nel 2007 una insegnante di Palermo viene denunciata dai genitori di un suo alunno perché gli aveva fatto scrivere sul quaderno per 100 volte “sono un deficiente”. L’insegnante, spiegando il significato della parola deficiente, aveva voluto punire il suo alunno perché aveva impedito ad un compagno di classe di entrare nel bagno dei maschi definendolo gay e femminuccia. Questa vicenda processuale attirò l’attenzione della stampa e diversi furono gli attestati di solidarietà nei confronti dell’insegnante. L’associazione omosessuale di Palermo Articolo Tre, il giorno in cui sarebbe stata emessa la sentenza, partecipò ad un sit-in di solidarietà nei confronti dell'insegnante davanti il tribunale di Palermo. L’insegnante venne assolta in primo grado e la stessa associazione diramò un comunicato di grande apprezzamento nei confronti della sentenza, perché nell’assolvere il comportamento dell’insegnante metteva sotto accusa i limiti di un sistema scolastico impreparato e non di rado indifferente nell’affrontare i fenomeni di bullismo, soprattutto quelli a sfondo omofobico. Il dott. Ambrogio Cartosio, nelle funzioni di Pubblico Ministero, scriveva un atto di Appello contro la sentenza di assoluzione ed anche questo balzava agli onori della cronaca, perché in esso erano scritti dei passi che attirarono l’attenzione della stampa. In quell’atto di Appello si leggeva che i metodi educativi dell’insegnate palermitana erano da paragonare a metodi da rivoluzione culturale cinese del 1966 e che “è nozione di comune esperienza che i giovani, dai più piccoli ai più grandi, e in tutte le aree geografiche d’Italia sono soliti apostrofarsi reciprocamente (e, spesso, semplicemente per scherzo) con espressioni omofobiche, o che hanno per oggetto i presunti facili costumi delle rispettive madri. Si tratta di un’abitudine non commendevole, quanto largamente diffusa e si può anche dire largamente tollerata dalla società”.

 

In seguito ai comunicati ed alle dichiarazioni di sdegno per questo tipo di motivazioni, anche da parte di illustri esponenti del movimento LGBT nazionale e di parlamentari, l’associazione Articolo Tre, a luglio del 2007, dirama un comunicato in cui, nel respingere fermamente l’idea che certi insulti siano da considerare tollerabili e semplice scherzo tra i ragazzini a scuola, scrive che “ il P.M. Cartosio dimostra di essere la punta avanzata della involuzione culturale italiana del 2007” concludendo con “la nostra associazione esprime profonda indignazione, non per il legittimo diritto al ricorso in appello, ma per la grettezza machista, omofoba e misogina che costituiscono l’impianto ideologico su cui si fonda tale ricorso”. Questi saranno i passi incriminati che nel 2009 spingeranno il dott. Ambrogio Cartosio a sporgere denuncia per diffamazione, il quale, casualmente, digitando su google il proprio nome, trova una serie di commenti relativi all’atto di Appello da lui scritto due anni prima.
Il processo viene istruito contro Vincenzo Rao, all’epoca dei fatti membro del direttivo dell’Associazione Articolo Tre, ed in primo grado (il 19 maggio del 2014) viene emessa una sentenza di condanna dal Tribunale di Caltanissetta a 4 mesi di reclusione, al pagamento delle spese processuali e ad un risarcimento danni da quantificare in sede civile su una richiesta della parte lesa di 30 mila euro. Il giudice monocratico motiva questa condanna perché considera il comunicato un mero attacco personale nei confronti di un nemico giurato della propria ideologia, preso di mira solo perché aveva fatto ricorso in Appello, senza menzionare i passi di quell’atto giudiziario che avevano motivato la critica contenuta nel comunicato. Inoltre, nella sentenza di condanna si legge che un atto giudiziario non può essere sottoposto a critiche metagiuridiche, soprattutto da parte di chi, comune cittadino e non addetto ai lavori, probabilmente non è nemmeno in grado di comprenderne il significato. La pena inflitta, si legge infine, ha uno scopo deterrente nei confronti dell’imputato.
Il 17 marzo del 2015 si svolge l’udienza di Appello in cui Vincenzo Rao rinuncia ad avvalersi della prescrizione del reato già sopraggiunta e la Corte di Appello di Caltanissetta conferma la condanna per diffamazione, modificando la pena inflitta da 4 mesi di reclusione a 1000 euro di ammenda, più spese processuali e risarcimento danni. Le motivazioni di questa seconda condanna saranno depositate entro 60 giorni dalla data del pronunciamento della sentenza.
Il prossimo passo sarà il ricorso in Cassazione e, se tale condanna dovesse ancora essere confermata, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Adesso occorre mobilitare l’opinione pubblica e gli interventi politici affinché, attraverso questa vicenda processuale, non passi il principio che la libertà di critica e di opinione sia un privilegio per pochi e non un fondamento costituzionale che vale per tutti i cittadini come garanzia della nostra democrazia. Adesso occorre anche un sostegno materiale, affinché chi sta subendo le conseguenze di questa vicenda non si trovi solo nell’affrontare i costi di una battaglia che non è semplicemente processuale e personale ma anche politica e collettiva.

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